L’assegno sociale, che dal 1995 sostituisce la vecchia pensione sociale, è una prestazione assistenziale, cioè una prestazione economica che non si basa, come le altre pensioni, sui contributi versati. Si tratta, quindi, di una provvidenza economica pensata per le persone anziane a basso reddito.
Per poter percepire l’assegno sociale, il richiedente deve avere i seguenti requisiti:
- a) 67 anni di età;
- b) possesso di un reddito inferiore al tetto stabilito dalla legge;
- c) cittadinanza italiana;
- d) per i cittadini stranieri comunitari: iscrizione all’anagrafe del comune di residenza;
- e) per i cittadini extracomunitari: titolarità del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (ex carta di soggiorno);
- f) soggiorno legale e continuativo, id est residenza effettiva, stabile e continuativa per almeno 10 anni, nel territorio nazionale (modifica introdotta dall’articolo 20, comma 10 della legge n.133/2008).
Per quanto riguarda il requisito reddituale di cui alla lettera b), bisogna essere titolare di un reddito al di sotto della soglia prevista per legge, la quale cambia a seconda che la persona sia coniugata o meno.
Se il richiedente non è coniugato, il limite di reddito è pari allo stesso importo annuo dell’assegno sociale, quindi, per l’anno 2022, commisurato in euro 6.085,43; se il richiedente è coniugato, il limite di reddito è raddoppiato, cioè pari (sempre per il 2022) a euro 12.170,86, ma in tal caso si fa riferimento al reddito di entrambi i coniugi.
Se i redditi dell’interessato, quelli dell’eventuale coniuge oppure la somma di entrambi superano i limiti di legge, l’assegno sociale viene negato. Se invece il richiedente non dispone di alcun reddito personale, l’assegno sociale viene erogato in misura intera. Nel caso in cui il reddito del richiedente o quello del coniuge o la loro somma siano inferiori ai limiti di legge, l’assegno viene erogato per un importo ridotto. In questo caso, sarà pagato un importo annuo pari alla differenza tra l’importo intero annuale dell’assegno sociale corrente e l’ammontare del reddito annuale.
Per quanto, più in particolare, concerne la determinazione del limite di reddito ostativo alla concessione dell’assegno sociale previsto dalla L. n. 335/1995, il secondo alinea dell’art. 3, comma 6, così recita: “il reddito è costituito dall’ammontare dei redditi coniugali, conseguibili nell’anno solare di riferimento. L’assegno è erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato, entro il mese di luglio dell’anno successivo, sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti. Alla formazione del reddito concorrono i redditi, al netto dell’imposizione fiscale e contributiva, di qualsiasi natura, ivi compresi quelli esenti da imposte e quelli soggetti alla ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, nonché gli assegni alimentari corrisposti a norma del codice civile. Non si computano nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati, le anticipazioni sui trattamenti stessi, le competenze arretrate soggette a tassazione separata, nonché il proprio assegno e il reddito della casa di abitazione. Agli effetti del conferimento dell’assegno non concorre a formare reddito la pensione liquidata secondo il sistema contributivo ai sensi dell’art. 1, comma 6, a carico di gestioni ed enti previdenziali pubblici e privati che gestiscono forme pensionistiche obbligatorie in misura corrispondente a un terzo della pensione medesima e comunque non oltre un terzo dell’assegno sociale”.
Sotto tale ultimo profilo, si è statuito in giurisprudenza che il diritto all’assegno sociale si fonda sullo stato di bisogno accertato del titolare, stato che viene rigidamente ancorato alla mancanza di redditi o all’insufficienza di quelli percepiti al di sotto del limite massimo indicato dalla legge, e che, pertanto, “il presupposto di legge per ottenere l’assegno sociale non è di per sé lo stato di bisogno o lo stato di indigenza, bensì una determinata situazione reddituale dell’interessato e dell’eventuale coniuge” (Tribunale di Cosenza, sentenza n. 669/2020).
Difatti, ai sensi dell’art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995, l’assegno sociale è corrisposto a chi si trova in determinate “condizioni reddituali”.
In base a una lettura interpretativa della Suprema Corte di Cassazione (Cass. 13577/2013), ai sensi del citato art. 3 (il quale prevede che alla formazione del reddito complessivo contribuiscono i redditi di “qualsiasi natura”) può essere preso in considerazione, anche in via presuntiva, il tenore di vita del richiedente, non al fine di individuare un requisito di accesso alla prestazione diverso da quelli previsti dalla legge, ma per individuare nel suo sistema di vita una serie di indicatori che, globalmente sommati, possono dare luogo ad un reddito superiore a quello massimo.
Recita testualmente la suddetta sentenza: “Nel caso di specie il giudice di merito ha preso in considerazione il tenore di vita del richiedente non al fine di individuare un requisito di accesso alla prestazione diverso da quelli previsti dalla legge, ma per individuare nel suo sistema di vita una serie di indicatori che, globalmente sommati danno luogo ad un reddito superiore a quello massimo (deposito bancario di una consistente somma di danaro e conseguente percezione degli interessi relativi, investimento in titoli mobiliari, pagamento di un non modesto canone di locazione per la propria abitazione, contributo economico mensile di un figlio). Tale indagine sul complesso delle entrate patrimoniali è consentita dalla norma di legge la quale prevede che alla formazione del reddito complessivo contribuiscono i redditi di “qualsiasi natura”; pertanto, il giudice di merito legittimamente ha considerato ai fini della determinazione del reddito tutte le entrate patrimoniali del S., ritenendo che nel loro complesso esse superassero il tetto reddituale previsto. Non essendo contestato nella sua materialità, deve ritenersi che il giudice abbia correttamente proceduto a tale accertamento”.
In altri frangenti, però, la Corte di Cassazione, posta dinanzi al quesito se la dizione usata dal legislatore (“redditi di qualsiasi natura”) potesse comportare la conseguenza di escludere l’assegno sociale in presenza di entrate patrimoniali non solo attuali, ma anche concretamente possibili, ha dato una risposta nettamente negativa.
A tal proposito, è necessario leggere l’illuminante motivazione della ormai nota sentenza della Cassazione Civile, Sez. Lavoro, n. 24954 del 2021:
«Va ricordato che la L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 6, nel disciplinare i presupposti per la corresponsione dell’assegno sociale, stabilisce espressamente, per quanto qui interessa, che “se il soggetto possiede redditi propri l’assegno è attribuito in misura ridotta fino a concorrenza dell’importo predetto” (ossia “fino ad un ammontare annuo netto da imposta pari, per il 1996, a Lire 6.240.000”), e che, all’uopo, “il reddito è costituito dall’ammontare dei redditi (…) conseguibili nell’anno solare di riferimento”: l’assegno, infatti, “è erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato, entro il mese di luglio dell’anno successivo, sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti”. Nell’interpretare tale disposizione, questa Corte ha già affermato che, essendo il conguaglio strettamente connesso non alla mera titolarità di un reddito, bensì alla sua effettiva percezione, è da ritenere che il reddito incompatibile in tanto rilevi in quanto sia stato effettivamente acquisito al patrimonio dell’assistito: una lettura costituzionalmente orientata della norma in esame esclude infatti che si possa negare l’assegno a coloro che, pur essendo astrattamente titolari di un reddito totalmente o parzialmente incompatibile con l’assegno sociale, si vengano a trovare, in conseguenza della mancata percezione di fatto di tale reddito, nella medesima situazione reddituale di coloro che hanno diritto all’assegno sociale (così Cass. n. 6570 del 2010, cit. dalla sentenza impugnata). E benché sia vero che, nel caso colà deciso, questa Corte abbia positivamente valorizzato la circostanza che la mancata percezione dell’assegno divorzile si doveva all’accertata incapienza del coniuge divorziato, reputa il Collegio che da tale constatazione non possa farsi discendere un obbligo gravante sull’assistito di preventiva escussione dell’eventuale soggetto obbligato: tale conclusione, infatti, si porrebbe in contrasto con la lettera dell’art. 3, comma 6, cit., che valorizza ai fini del diritto all’assegno soltanto la circostanza che i redditi siano “effettivamente percepiti”, indipendentemente dalla prova che l’avente diritto si sia effettivamente (ed infruttuosamente) attivato per riscuoterli. Non vi è, insomma, né nella lettera né nella ratio dell’art. 3, comma 6, l. n. 335/1995, alcuna indicazione circa il fatto che lo stato di bisogno, per essere normativamente rilevante, debba essere anche incolpevole: al contrario, la condizione legittimante per l’accesso alla prestazione assistenziale rileva nella sua mera oggettività. La previsione secondo cui il reddito rilevante ai fini del diritto all’assegno “è costituito dall’ammontare dei redditi […] conseguibili nell’anno solare di riferimento” dev’essere infatti interpretata in stretta connessione con quella immediatamente successiva, secondo cui, come appena ricordato, l’assegno «è erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato [… ] sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti»: vale a dire che all’assistito è richiesto soltanto di formulare una prognosi riguardante i redditi percepibili in relazione allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della domanda, fermo restando che la corresponsione effettiva dell’assegno dovrà essere parametrata a ciò che di tali redditi risulti “effettivamente percepito”», aggiungendosi, assai incisivamente, che «tale conclusione s’impone in ragione del fatto che il sistema di sicurezza sociale delineato dalla Costituzione non consente di ritenere in via generale che l’intervento pubblico a favore dei bisognosi abbia carattere sussidiario, ossia che possa aver luogo solo nel caso in cui manchino obbligati al mantenimento e/o agli alimenti in grado di provvedervi: basti ricordare che l’art. 3, comma 2°, Cost. prefigura un generale impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana; che l’art. 38 enuncia il diritto di ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere al mantenimento e all’assistenza sociale; che l’art. 32, nell’attribuire il diritto alla salute ad ogni individuo, assicura cure gratuite agli indigenti; che l’art. 34 prevede che il diritto allo studio debba essere assicurato in modo che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, possano raggiungere i più alti gradi dell’istruzione; che gli artt. 31 e 37 delineano forme ampie e generalizzate di protezione per la maternità, l’infanzia e la gioventù, di aiuto e sostegno alla famiglia, nell’adempimento dei suoi compiti, e di tutela e garanzia per la madre lavoratrice e l’adolescente lavoratore. Ciò va quanto dire che il rapporto tra prestazioni pubbliche di assistenza e obbligazioni familiari a contenuto latamente alimentare va costruito sempre in relazione alla speciale disciplina che istituisce e regola la prestazione che si considera, alla quale sola bisogna riferirsi per comprendere in che modo sulla sua corresponsione possa incidere la sussistenza di eventuali obbligati al mantenimento e/o agli alimenti: opinare il contrario equivarrebbe appunto a supporre che l’obbligo dello Stato di provvedere ai bisognosi sussiste solo in via sussidiaria, ciò che, escludendo in radice ogni possibilità di libera scelta tra le due forme di protezione, finirebbe per lasciare tali soggetti alla mercé delle vischiosità dei rapporti familiari, impedendo alla collettività di garantirne la personalità, l’autonomia e la stessa dignità, in spregio alla lettera e all’intonazione dei principi costituzionali dianzi ricordati.»
Sul punto, è utilissimo riportare pure un ampio stralcio di una sentenza del Tribunale di Napoli del 13/4/2021, reperibile sul web al seguente URL: https://www.studiofrancescogentile.it/assegno-sociale/news/42/2021/4/13
“Si è discusso – afferma il Giudice del Lavoro e Previdenza napoletano – se l’ampia formula usata dal legislatore (“redditi di qualsiasi natura”) e anche la non coincidenza con la nozione di reddito “fiscale” potessero indurre ad escludere l’assegno sociale in presenza di entrate patrimoniali, non solo attuali, ma anche concretamente possibili (fatta solo eccezione per le entrate espressamente escluse), che minerebbero l’esistenza della predetta situazione di bisogno (cfr. sentenza di quest’ufficio n. 1857/2016) e, dunque, se potesse tenersi conto della non irrimediabilità dello stato di disagio economico. Orbene, a tale quesito la Suprema Corte, come già ritenuto per la pensione sociale, ha dato risposta negativa. Secondo la Corte (v., da ultimo Cass. n. 14513 del 09/07/2020) va del tutto escluso che ai fini del requisito reddituale previsto per l’assegno sociale possa assumere rilievo una mera pretesa (nella specie si trattava dell’astratta possibilità di chiedere l’assegno di mantenimento a carico del proprio coniuge in sede di separazione) perché, in base alla stessa legge conta esclusivamente lo stato di bisogno effettivo risultante cioè dalla comparazione tra reddito dichiarato e reddito effettivamente percepito: l’assegno è infatti erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato, entro il mese di luglio dell’anno successivo, sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti. In tal senso quindi va escluso che possa rilevare un reddito potenziale, mai attribuito e percepito dal soggetto che richiede l’assegno sociale nel periodo considerato, dovendo, piuttosto, dare esclusivo rilievo allo stato di bisogno effettivo da accertarsi sulla base delle norme di legge (ovvero attraverso la verifica tra la dichiarazione presentata all’atto della domanda e la dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti presentata l’anno successivo). Secondo la Suprema Corte, quindi, è erroneo, in carenza di qualsiasi previsione di legge, ritenere che la mancanza di richiesta dell’assegno di mantenimento al coniuge separato equivalga ad assenza dello stato bisogno dando luogo al riconoscimento del proprio stato di autosufficienza economica e, in via ulteriore, è, parimenti erroneo, presumere la esistenza di un reddito di cui nella legge non vi è traccia. Dato che, come risulta dalla menzionata disciplina, la legge prevede, al contrario, come unico requisito, uno stato di bisogno accertato, caso per caso, non solo per concedere ma anche per mantenere la tutela di base assistenziale per gli anziani nel nostro Paese. I principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento all’ipotesi della mancata richiesta di mantenimento da parte del coniuge separato (v., anche Cass. n. 6570 del 18/03/2010, per l’ipotesi del coniuge separato che pur titolare dell’assegno di mantenimento aveva omesso di richiederne il pagamento all’altro coniuge) possono, senz’altro, trovare applicazione anche per tutte le ipotesi in cui il diniego del beneficio si fonda sulla astratta possibilità di conseguire un reddito che il richiedente la prestazione non ha azionato o, anzi, addirittura, sulla volontaria privazione di quel bene che avrebbe potuto essere fonte di reddito. Se, ai fini di legge, non è sufficiente la mera titolarità di un reddito se non vi è anche la sua concreta percezione, nulla autorizza ad introdurre nell’ordinamento l’ulteriore requisito … dell’obbligo del richiedente l’assegno sociale di rivolgersi previamente al proprio coniuge separato, ovvero, come nella specie, ai figli donatari dei beni immobili; con effetti inderogabilmente ablativi del diritto all’assegno sociale, in caso di loro inottemperanza; e ciò pur nella accertata sussistenza dei requisiti esplicitamente dettati allo scopo dalla legge, ma senza che la stessa disciplina contenga alcuna indicazione in tale direzione, né ai fini dell’accesso al diritto, né ai fini della misura dell’assegno sociale. Senza considerare che le situazioni tra coniugi, così come rispetto ai figli, non si prestano certo ad essere valutate in sede giudiziale, semplicisticamente e con la medesima chiave presuntiva, tanto meno in sede di assistenza sociale, per tutti i destinatari della tutela. Perché in tal modo si rischia di conferire alla disciplina profili di irrazionalità ma anche di trattare in modo uguale situazioni assai differenti proprio sul piano reddituale, a cui la legge sull’assegno sociale conferisce rilievo predominante ai fini della tutela (cfr. Cass.14513/2020 cit.). In definitiva, la legge, per garantire il diritto ex art.38 Cost. al c.d. minimo vitale, degli anziani più poveri, ha istituito un sistema di accertamento basato unicamente sul controllo del reddito effettivamente posseduto (Cass. n. 6570/2010, cit.)”.
Insomma, voler teleologicamente interpretare gli atti e i comportamenti che avvengono all’interno delle famiglie, come spesso fa l’INPS nel motivare alcuni provvedimenti di diniego dell’assegno sociale, significa operare una illegittima e ingiustificata presunzione, che non può trovare ingresso nella valutazione sulla concessione del beneficio. La legge, infatti, non a caso, àncora la prestazione assistenziale di assegno sociale a rigidi requisiti reddituali proprio al fine di evitare improprie e discriminatorie valutazioni discrezionali.
Ha quindi ragione il Tribunale di Napoli nel momento in cui afferma che “le situazioni tra coniugi, così come rispetto ai figli, non si prestano certo ad essere valutate in sede giudiziale, semplicisticamente e con la medesima chiave presuntiva, tanto meno in sede di assistenza sociale, per tutti i destinatari della tutela. Perché in tal modo si rischia di conferire alla disciplina profili di irrazionalità ma anche di trattare in modo uguale situazioni assai differenti proprio sul piano reddituale, a cui la legge sull’assegno sociale conferisce rilievo predominante ai fini della tutela (cfr. Cass.14513/2020 cit.)”.
In definitiva, quindi, il legislatore, per garantire il diritto ex art.38 Cost. al c.d. minimo vitale degli anziani più poveri, ha istituito un sistema di accertamento basato unicamente sul controllo del reddito effettivamente posseduto (Cass. n. 6570/2010, cit.). Reddito che, come prima argomentato, dev’essere rigidamente attuale, e non meramente potenziale: “In ogni caso di tutela previdenziale rapportata al limite di reddito – afferma pure il Tribunale di Cosenza, sentenza n. 49/2021 – ai fini della determinazione di questo deve essere presa in considerazione qualsiasi attuale disponibilità di redditi, sempre che essi non siano stati esclusi dalla legge“.