Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14561 del 09/05/2022, hanno affermato il principio secondo cui, ai fini della proponibilità dell’azione giudiziaria con la quale, in caso di revoca di una prestazione assistenziale, si intenda accertare la persistenza dei requisiti costitutivi del diritto alla prestazione di invalidità, non è necessario presentare una nuova domanda amministrativa.
Come è ormai noto, in base all’indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione impresso nelle sentenze n. 28445 del 2019 e n. 27355 del 30.11.2020, la domanda giudiziale proposta avverso il verbale sanitario di revisione negativo veniva giudicata improponibile per carenza di domanda amministrativa, avendo il ricorrente l’onere di avviare un nuovo procedimento amministrativo per il ripristino della prestazione, in quanto “…ove la verifica amministrativa, prevista obbligatoriamente dalla legge di settore come ordinariamente finalizzata ad accertare la permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, si concluda con la revoca della prestazione, tale atto determina inevitabilmente l’estinzione del diritto, senza possibilità di considerare come un unicum il precedente rapporto obbligatorio sorto dal riconoscimento del diritto ormai estinto, con la conseguenza della necessità di proporre una nuova domanda se l’interessato ritiene di trovarsi in situazione idonea”. E pertanto, trattandosi del riconoscimento di un nuovo diritto del tutto diverso, ancorché identico nel contenuto, da quello estinto per revoca, era necessario presentare una nuova domanda amministrativa per il ripristino della prestazione, restando precluso il ricorso all’autorità giudiziaria.
Sennonché, tale indirizzo restrittivo aveva cominciato a subire un ripensamento all’interno della Suprema Corte e, in un mio contributo (“Le ultime decisioni della Corte di Cassazione in merito alla ricorribilità del verbale negativo di revisione sanitaria e alla impugnabilità del provvedimento INPS di revoca della prestazione“) avevo illustrato il contenuto delle due ordinanze (la n. 15710 del 23/07/2020 e la n. 12945 del 2021) che, progressivamente, avevano portato la questione all’esame delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
E, finalmente, con la sentenza SS.UU. n. 14561 del 09/05/2022, gli Ermellini hanno confutato il precedente indirizzo che inibiva l’accesso allo strumento giudiziario in caso di esito negativo dell’accertamento di revisione del requisito sanitario, enunciando il seguente principio di diritto: “Ai fini della proponibilità dell’azione giudiziaria con la quale, in caso di revoca di una prestazione assistenziale, si intenda accertare la persistenza dei requisiti costitutivi del diritto alla prestazione di invalidità non è necessario presentare una nuova domanda amministrativa”.
Recependo le osservazioni critiche mosse dalla Sezione Lavoro nella citata ordinanza di rimessione degli atti alle Sezioni Unite, la Cassazione a SS. UU., partendo dalla premessa concettuale per cui “la domanda amministrativa trova la sua ragione d’essere nell’esigenza di provocare una verifica anticipata, in sede amministrativa, dell’esistenza dei requisiti per ottenere la prestazione”, osserva in senso critico che, “ove si contesti il venir meno dei requisiti sanitari e socioeconomici della prestazione già in godimento e se ne affermi la persistenza senza soluzione di continuità, allora, un nuovo accertamento in sede amministrativa risulta essere un duplicato di un’azione amministrativa appena conclusasi. Diversamente opinando si finisce per ancorare la proponibilità della domanda giudiziaria all’esito di una domanda amministrativa finalizzata all’ accertamento dell’esistenza dei requisiti costitutivi del diritto alla prestazione assistenziale sebbene tale verifica sia stata già effettuata nella fase amministrativa conclusasi con la revoca”.
Continua sul punto la Corte a SS.UU.: “la presentazione di una domanda amministrativa quale antecedente necessario per la proposizione della domanda giudiziaria – con la quale si chieda il ripristino della prestazione di invalidità che si assuma essere stata erroneamente revocata all’esito del procedimento di verifica della persistenza dei suoi requisiti costitutivi – si risolve in un adempimento che comporta da un canto rilevanti conseguenze in danno dell’invalido al quale, come si è ricordato, non potrà essere riconosciuto in sede giudiziaria un integrale ripristino del diritto pur illegittimamente revocato. Dall’altro non assolve ad un concreto interesse per l’amministrazione la quale in sede di revisione della prestazione ha già svolto gli accertamenti amministrativi necessari alla verifica dell’esistenza o meno in capo all’invalido dei requisiti costitutivi del diritto già in godimento. Si tratta di adempimento che nel descritto contesto non è funzionale ad agevolare la risoluzione amministrativa della potenziale controversia agendo deflattivamente sul contenzioso giudiziario. Potenzialmente, anzi, si potrebbe produrre un effetto paradosso di moltiplicare le impugnazioni: sia della sospensione in via amministrativa della prestazione sia, poi, della revoca, per la quale sarebbe necessaria, comunque, la presentazione di una nuova domanda amministrativa. Una ricostruzione che complessivamente considerata non risponde ad un criterio di ragionevolezza che ne giustifichi la condivisione”.
Vi è poi un altro argomento su cui le Sezioni Unite pongono con forza l’attenzione nel motivare l’accoglimento del ricorso e l’affermazione del principio della diretta ricorribilità del verbale sanitario di revisione negativo: “la previsione di una domanda amministrativa quale condizione di proponibilità della domanda giudiziaria – sostiene la Corte – refluisce sulla decorrenza della prestazione che non potrà essere “ripristinata” ma decorrerà, a norma dell’art. 12 della legge n. 118 del 1971 e dell’art. 3 comma 4 della legge n. 18 del 1980, dal primo giorno del mese successivo alla data della sua presentazione”.
In sostanza, come già osservato dalla ordinanza interlocutoria di rimessione, la negazione della diretta impugnabilità del provvedimento di revoca determinerebbe per l’interessato, in caso di esito favorevole del nuovo procedimento ritualmente riattivato, la perdita dei ratei di prestazione maturati nel tempo intercorso fra la revoca del beneficio e la riammissione al godimento del diritto, nel senso che il beneficiario della prestazione si troverebbe nell’impossibilità – contrastante con l’art. 24 Cost. – di rivendicare giudizialmente quanto a lui non corrisposto.
Altro punto critico rilevato dagli Ermellini delle Sezioni Unite attiene a una questione processuale. “La necessità di una nuova domanda amministrativa, condizione di proponibilità dell’azione giudiziaria – argomenta la Corte – mal si coordina con l’affermazione che il termine di decadenza semestrale per la proposizione della domanda giudiziale (di cui al citato art. 42 comma 3 del d.I. n. 269 del 2003, convertito con modificazioni dalla legge n. 326 del 2003) decorra dalla data di comunicazione all’interessato del verbale della Commissione medica anche nell’ ipotesi in cui detto verbale accerti il venir meno dei requisiti sanitari per il beneficio in godimento, irrilevante la data del successivo provvedimento di revoca da parte dell’ente previdenziale, che ha carattere meramente ricognitivo di effetti già prodotti”.
Come può rilevarsi, le parole delle SS.UU. ripercorrono quelle enunciate dalla Sezione Lavoro nella ordinanza interlocutoria n. 12945/2021, che acutamente aveva rilevato come “la sequenza revoca della prestazione – domanda giudiziale di ripristino si accrediterebbe pure per l’anomalia di configurare l’obbligatorietà dell’istanza amministrativa, cui fa seguito il non breve spatium deliberandi entro il quale l’ente gestore può provvedere, in pendenza del termine decadenziale di sei mesi per impugnare il verbale di revisione”.
Sullo stesso argomento: