A seguito della pronuncia della Corte di Cassazione n. 28445 del 2019, sempre più spesso l’INPS eccepisce l’improponibilità del ricorso di ATP proposto in caso di mancata conferma della sussistenza del requisito sanitario in sede di visita di revisione.
Nella pratica amministrativa, l’istituto, ove a seguito della programmata revisione sanitaria venga ritenuto non più sussistente il grado di invalidità previsto dalla legge, provvede a sospendere il pagamento della prestazione al beneficiario.
Ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c., “nelle controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, chi intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti presenta con ricorso al giudice competente ai sensi dell’articolo 442 codice di procedura civile, presso il Tribunale nel cui circondario risiede l’attore, istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere”. In base all’art. 42 comma 3 del D.L. 269/03, conv. con legge 326/03, “la domanda giudiziale [dei procedimenti giurisdizionali concernenti l’invalidità civile, la cecità civile, il sordomutismo, l’handicap e la disabilità ai fini del collocamento obbligatorio al lavoro] è proposta, a pena di decadenza, avanti alla competente autorità giudiziaria entro e non oltre sei mesi dalla data di comunicazione all’interessato del provvedimento emanato in sede amministrativa”.
Sulla base del predetto impianto normativo, quindi, in caso di mancata conferma del requisito sanitario, il beneficiario della prestazione ha il diritto di proporre azione giudiziaria a mezzo di ATP nel termine di sei mesi dalla comunicazione del verbale sanitario.
La sentenza della Cassazione n. 28445 del 2019 prima citata, secondo la prospettazione difensiva dell’istituto, avrebbe invece sancito l’improponibilità della domanda giudiziale avverso il verbale di invalidità negativo in tutti quei casi in cui l’INPS abbia provveduto a disporre la revoca della prestazione. In sostanza, la domanda giudiziale sarebbe improponibile per carenza di domanda amministrativa, avendo il ricorrente l’onere di avviare un nuovo procedimento amministrativo per il ripristino della prestazione perché “…ove la verifica amministrativa, prevista obbligatoriamente dalla legge di settore come ordinariamente finalizzata ad accertare la permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, si concluda con la revoca della prestazione, tale atto determina inevitabilmente l’estinzione del diritto, senza possibilità di considerare come un unicum il precedente rapporto obbligatorio sorto dal riconoscimento del diritto ormai estinto, con la conseguenza della necessità di proporre una nuova domanda se l’interessato ritiene di trovarsi in situazione idonea” (Cass. n. 28445/2019). E pertanto, afferma l’INPS, trattandosi del riconoscimento di un nuovo diritto del tutto diverso, ancorché identico nel contenuto, da quello estinto per revoca, il cittadino deve presentare una nuova domanda amministrativa per il ripristino della prestazione, giammai ricorrere dinanzi all’autorità giudiziaria con l’ATP.
A guardar bene, l’INPS opera una illegittima commistione fra la revoca della prestazione, che è un provvedimento amministrativo ben specifico, da comunicare al fruitore del beneficio, e la fase di verifica sanitaria, che, ove abbia esito negativo, comporta la semplice sospensione della prestazione fintanto che il beneficiario goda del termine semestrale per impugnare il verbale sanitario.
E anche i documenti che l’istituto spesso produce in allegazione alla memoria di costituzione a conforto della propria tesi, non costituiscono certamente provvedimenti di revoca. Essi sono invece da inquadrare come provvedimenti di sospensione della prestazione, in attesa che si svolga l’eventuale fase di impugnazione del verbale negativo o che spiri il termine semestrale per proporre l’azione.
D’altronde, una volta emanato il verbale di revisione sul requisito sanitario, e prevedendo la norma che avverso i verbali sanitari è possibile proporre ATP nel termine dei 6 mesi, il provvedimento formale di revoca deve seguire necessariamente alla consumazione del termine per proporre il giudizio di ATP, non precederla, altrimenti verrebbe ad essere leso il diritto di azione e di impugnazione dei provvedimenti.
Da ultimo, sul punto, è intervenuta la decisione del Tribunale di Cosenza che, seppur succintamente, nel procedere alla nomina del CTU e alla formulazione del quesito peritale sanitario, ha respinto l’eccezione di improponibilità avanzata dall’INPS, richiamando i principi espressi da Cass. Sez. Lav. 6085/2014.
Quella tracciata dal Tribunale di Cosenza, sebbene lasci, e proprio per la limitatezza dei poteri di giudizio conferiti al giudice dell’ATP secondo l’impostazione impressa da Cass. Sez. Lav. 6085/2014, impregiudicata la questione controversa, offre un importante spunto di valutazione e un chiaro indirizzo sistematico: il giudizio di accertamento tecnico di cui all’art. 445 bis c.p.c. è la sede ove accertare esclusivamente la sussistenza del requisito sanitario.
Come recita testualmente la Cassazione nella succitata sentenza, infatti, ” “il giudice adito con la istanza per ATP null’altro è legittimato a fare se non a procedere alla consulenza e gli è inibito di operare preliminarmente verifiche di sorta sugli altri requisiti, giacché il legislatore pone l’ATP come fase preliminare in cui passare “necessariamente”, quali che siano gli ostacoli che, nelle singole fattispecie, precluderebbero comunque il diritto alla prestazione richiesta.”
Nel termine di 6 mesi dalla comunicazione del verbale di mancata riconferma delle condizioni sanitarie, pertanto, il richiedente ha sempre il diritto di proporre il giudizio. Successivamente, ove in sede giudiziale il requisito sanitario sia stato riconosciuto attraverso il provvedimento di omologa, l’INPS ha l’obbligo di ripristinare la prestazione nel termine di 120 giorni, previa verifica, in sede amministrativa, degli ulteriori requisiti non sanitari prescritti dalla legge. E nel caso in cui l’ente di previdenza non provveda alla liquidazione della prestazione, la parte istante sarà tenuta a proporre un nuovo giudizio (da introdurre con normale ricorso e non con ATP), che è a cognizione piena, ancorché limitato (essendo ormai intangibile l’accertamento sanitario) appunto alla verifica della esistenza di tutti i requisiti non sanitari prescritti dalla legge per il diritto alla prestazione richiesta. Detta in altri termini, in definitiva, qualsiasi controversia relativa a questioni che non riguardino l’aspetto eminentemente sanitario (quale, pure, l’eccepita revoca della prestazione che non consentirebbe, a dire dell’istituto, la proposizione del ricorso avverso il verbale negativo emesso a seguito della visita di revisione) non può trovare ingresso nel giudizio ex art. 445 bis c.p.c., deputato esclusivamente all’accertamento delle condizioni sanitarie.
Vale la pena, al termine della presente nota, riportare per esteso i principi di diritto espressi dalla sentenza della Cassazione n. 6085 del 2014.
Il decreto di omologa del requisito sanitario o la sentenza che conclude il giudizio contenzioso conseguente alle contestazioni, non incidono sulle situazioni giuridiche soggettive perché non conferiscono né negano alcun diritto, dal momento che non statuiscono sulla spettanza della prestazione richiesta e sul conseguente obbligo dell’Inps di erogarla.
Quando il procedimento si concluda con la verifica della inesistenza della invalidità, il giudizio si chiude, non essendovi più nulla da accertare, essendo evidente che la prestazione richiesta non compete.
Quando invece, o attraverso la fase di omologa o attraverso quella contenziosa, si accerti l’esistenza di una invalidità che conferisce il diritto alla prestazione previdenziale o assistenziale richiesta, si apre necessariamente la fase successiva, quella cioè concernente la verifica delle ulteriori condizioni poste dalla legge per il suo riconoscimento.
La legge non descrive espressamente i lineamenti di questa ulteriore fase, onerando semplicemente l’ente di previdenza di procedere al pagamento della prestazione entro 120 giorni, previa verifica, in sede amministrativa, di detti ulteriori requisiti.
Ove l’ente di previdenza non provveda alla liquidazione della prestazione, la parte istante sarà tenuta a proporre un nuovo giudizio, che è a cognizione piena, ancorché limitato (essendo ormai intangibile l’accertamento sanitario) appunto alla verifica della esistenza di tutti i requisiti non sanitari prescritti dalla legge per il diritto alla prestazione richiesta.
Il relativo giudizio, si concluderà, con una sentenza che, in assenza di contrarie indicazioni della legge, sarà soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione, che dovranno ovviamente incentrarsi solo sulla verifica dei requisiti diversi dall’invalidità.



