L’assegno mensile di assistenza è una prestazione assistenziale prevista dall’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118, per come sostituito dall’art. 1, comma 35 della legge 24 dicembre 2007, n. 247.
“Agli invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo e il sessantaquattresimo anno – recita la norma – nei cui confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura pari o superiore al 74 per cento, che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste, è concesso, a carico dello Stato ed erogato dall’INPS, un assegno mensile di euro 242,84 per tredici mensilità, con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di cui all’articolo 12″.
L’indirizzo operativo dell’INPS, adottato all’indomani della Legge n. 247/2007 di modifica della disciplina dell’assegno mensile di assistenza, e contenuto nel messaggio n. 3043 del 06-02-2008, era mirato a comprendere nella definizione di “stato di inoccupazione” (a sua volta previsto dalla norma ed enucleato dalla Cassazione come la condizione di chi, invalido, “non svolge attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste”), anche coloro che percepissero dall’attività lavorativa esercitata una retribuzione di minima entità.
“Il requisito del mancato svolgimento di attività lavorativa – scriveva l’Istituto nel messaggio testé citato – sussiste anche … quando è verificato lo stato di disoccupazione in quanto lo svolgimento di attività lavorativa assicura un reddito annuale non superiore al reddito minimo personale escluso da imposizione (vedi T.U. in materia di imposte dirette e relativi aggiornamenti)”. (Tale limite, in base alle leggi fiscali, è pari, per le attività di lavoro subordinato o parasubordinato, ad euro 8.000, e per quelle di lavoro autonomo, ad euro 4.800).
Sennonché, col messaggio n. 3495 del 14/10/2021, l’INPS, invertendo la rotta (per un excursus riepilogativo normativo e giurisprudenziale sull’argomento, rimando a un mio precedente contributo) ha disposto che a fare data dalla pubblicazione del suddetto messaggio, l’assegno mensile di assistenza di cui all’articolo 13 della legge n. 118/1971, sarebbe stato liquidato, fermi restando tutti i requisiti previsti dalla legge, solo nel caso in cui fosse risultata l’inattività lavorativa del soggetto beneficiario “poiché – si legge nell’atto interno di indirizzo operativo emanato dall’Istituto – la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che lo svolgimento dell’attività lavorativa, a prescindere dalla misura del reddito ricavato, preclude il diritto al beneficio di cui all’articolo 13 della legge n. 118/1971 (cfr. Cass. n. 17388/2018; n. 18926/2019)”.
A far data dal messaggio n. 3495 del 14/10/2021, quindi, l’INPS non avrebbe più riconosciuto l’assegno di assistenza a tutti gli invalidi parziali che svolgessero una seppur minima attività lavorativa retribuita.
La decisione ha gettato nello sconforto milioni di italiani ed ha avuto vasta eco su tutti gli organi di stampa.
Scrivevo a tal proposito nel citato mio contributo: “la questione merita certamente, a mio sommesso avviso, un immediato intervento riparatore da parte del legislatore (o, in alternativa, della Corte Costituzionale?), perché la norma penalizza in modo eccessivo i cittadini che rientrino nella fascia di disabilità compresa fra il 74% e il 99%. Ancor più evidente appare la discriminazione, se si pensa che la prestazione assistenziale “gemella”, vale a dire la pensione di inabilità ex art. 12 L. 118/1971, concessa ai totalmente invalidi, è al contrario compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa”.
E, puntuale e provvidenziale, l’intervento normativo è arrivato.
Il “Decreto Fiscale” (DL n. 146/2021), convertito con modificazioni dalla Legge n. 215/2021, recante “Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili”, all’art. 12 ter, rubricato “Requisiti ai fini dell’assegno di cui all’articolo 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118”, ha disposto che “Il requisito dell’inattività lavorativa previsto dall’articolo 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118, deve intendersi soddisfatto qualora l’invalido parziale svolga un’attività lavorativa il cui reddito risulti inferiore al limite previsto dall’articolo 14-septies del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 febbraio 1980, n. 33, per il riconoscimento dell’assegno mensile di cui al predetto articolo 13”. Tale limite è fissato, per il 2022, in Euro 5.010,20.
La norma, oltre che porre un rimedio a una palese ingiustizia ai danni di una categoria svantaggiata di cittadini, ha pure il merito di aver semplificato il sistema di commisurazione reddituale per la percezione della provvidenza.
Nella vigenza dell’operatività del messaggio INPS n. 3043 del 2008, infatti, l’assistito invalido lavoratore era costretto a confrontarsi con due tetti reddituali: uno relativo al requisito dello stato di inoccupazione, che era sussistente ove la retribuzione percepita non superasse, come prima detto, Euro 8.000 per le attività di lavoro subordinato o parasubordinato, ed Euro 4.800 per quelle di lavoro autonomo, e l’altro riguardante il requisito strettamente reddituale, che era rispettato qualora il richiedente non percepisse redditi (anche extralavorativi) non superiori a un tetto che nel corso degli anni è progressivamente cresciuto e che nel 2022 è stato commisurato, come sopra riportato, in Euro 5.010,20.
E, spesso, questo doppio limite reddituale era suscettibile di creare confusione nei possibili fruitori del beneficio, non adusi alla logica, a volte fin troppo sottile, delle norme. Poteva infatti succedere, nella pratica quotidiana, che il cittadino invalido, percependo un reddito da lavoro subordinato, per esempio, di 7.000 Euro annui, ritenesse di possedere il requisito per ottenere la prestazione, che gli veniva invece negata, con suo grande sconcerto, perché egli, pur soddisfacendo il requisito dello stato di inoccupazione in quanto percettore di un reddito lavorativo inferiore ad 8.000 Euro, non possedeva invece il requisito reddituale, in quanto il suo reddito si situava al di sopra del tetto-soglia stabilito in Euro 5.000 circa.
Con la modifica legislativa, invece, entrambi i tetti reddituali sono stati unificati, per cui, affinché siano sussistenti sia il requisito dell’inattività lavorativa, sia il requisito reddituale, il richiedente non deve superare il reddito di Euro 5.010,20.
